“Incubi” – Lapo Ferrarese

di Roberto Ruggieri

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Per un appassionato di narrativa horror, lettore sufficientemente avvezzo alle trame, alle entità, alle visioni raccontate in maniera pregevole dai più noti scrittori del genere, “Incubi” rappresenta un territorio dal paesaggio familiare ma non ancora realmente visitato. Tracce, ricordi sfumati, accennati deja vu provenienti dalla più nota produzione letteraria del terrore, emergono, ma senza eccessiva evidenza e sicuramente senza alcuna imitazione, tra le righe dei tre racconti nati dalla fantasia del quasi debuttante lapo ferrarese. L’ansia, il brivido e il mistero di Stephen King; la crudezza, il ritmo incalzante e l’introspezione dei personaggi alla Dean Koontz; l’impalpabilità delle entità, la fantasia onirica e le atmosfere angoscianti delle storie di Howard Phillips Lovecraft; e così via. Riferimenti che non servono a sostenere che “Incubi” è una commistione di stili e contenuti già letti, ma per evidenziare che, soprattutto oggi, la scrittura horror non può essere improvvisata e deve avere alla base una passione e una “esperienza” che necessariamente si sviluppano grazie alla lettura dei più grandi maestri del genere. Nonostante ciò, i tre racconti devono avere e hanno anche un che di peculiare, di prettamente “Ferrarese”: la capacità di raccontare dei terribili sogni come se chi narra stesse ancora sognando, cioè fosse convinto che tutto stia realmente accadendo. Come in tutti i sogni che si rispettino. E tale “illucidità” onirica coinvolge anche il lettore, il quale non si ritrova ad essere un semplice ascoltatore di un incubo descritto da chi si è appena svegliato, ma diventa compagno di sogno dei personaggi coinvolti e ne condivide la strana e terrificante realtà. Non a caso, quindi, la raccolta delle tre storie di lapo ferrarese ha titolo “Incubi”: che siano mostri, creature mai viste da occhio umano, ambienti mortali, fantasmi o mondi paralleli, tutte le entità sembrano avere origine da sogni, ma sono percepiti come protagonisti reali e tangibili di una realtà che, per quanto incredibile, è lì, di fronte ai nostri occhi; anzi, ci parla, ci tocca, ci uccide. Nei racconti di Ferrarese i personaggi non sanno di essere in un incubo, se incubo è veramente; comunque a nessuno è stato dato il compito di destarli. E il lettore, con loro, rimane intrappolato fino alla fine in questa realtà senza uscita.

(Lapo Ferrarese, Incubi, pp.180, 13,00euro, Galaad Edizioni)

“Alcune parole per Alice” – Michele Toniolo

di Pietro Ruggieri

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La perdita di un figlio è un evento devastante per una madre. Talmente devastante da non poter essere descritto. Il dolore raggiunge una tale assolutezza che si rischia di perdersi, di oltrepassare i confini della resilienza e di non tornare più a una vita normale. Sempre che possa esserci un ritorno alla normalità. Nessuno può spiegare cosa accada nel mondo interiore di una madre quando l’emanazione della sua stessa vita cessa di esistere. In Alcune parole per Alice la voce narrante, che rappresenta forse l’alter ego dell’autore, tenta di ricostruire il lutto di Alice. Antefatto ed epilogo sono lasciati nell’indeterminatezza: non sappiamo  con precisione cosa abbia provocato la malattia del figlio, né come vivrà Alice dopo la sua morte. Anche la donna che affida al narratore i quaderni che Alice le ha lasciato, per consentirgli di ricostruire la sua storia, non è identificata. Non sappiamo cosa abbia scritto Alice nei suoi quaderni-diari: il racconto del trauma subito riaffiora solo a tratti, come da una sorta di rievocazione psicoanalitica, da un’immedesimazione dell’io narrante con Alice stessa. La ricostruzione delle fasi del dolore di Alice – dall’inizio della malattia, che inchioda il figlio a letto consegnandolo a una vita quasi vegetativa, al periodo di assistenza continua al suo capezzale, fino alla morte – avviene quasi per riemersione di brandelli di coscienza da un magma indistinto. I sentimenti di Alice sono spiegati attraverso alcune parole che lei stessa cita nei quaderni e che il narratore cerca di riconsegnarle per restituire un significato al dolore, per incanalarlo in una dimensione che trascenda i limiti dell’umana comprensione. Ogni parola viene scandagliata meticolosamente, lucidamente, senza indugiare in scontati sentimentalismi. E come in una sorta di archeologia della perdita, ogni parola, recuperata dal substrato di scrittura disgregata e incompleta dei quaderni, riporta alla luce il vissuto di Alice, i suoi ricordi, il modo in cui ha affrontato la malattia e la fine del figlio. C’è una parola, apparentemente contraddittoria rispetto alle sofferenze di Alice, che emerge con prepotenza tra quelle citate nel racconto: delitto. Alice sente di aver commesso un atroce delitto: si è arresa, anche se solo per pochi istanti, all’impossibilità della guarigione del figlio, mentre avrebbe dovuto continuare a lottare per la sua vita anche nel momento in cui Dio lo stava portando via da lei. Il senso di impotenza di fronte all’ineluttabilità della morte la induce a cedere, e quel cedimento diventa per lei una colpa. Ma nessuna colpa può essere attribuita ad Alice, perché la sua resa di fronte all’evidenza dei fatti, la stanchezza e il senso di inutilità di fronte a un evento immodificabile la rendono umana. Nella sua umanità, Alice getta via dalla finestra gli oggetti presenti nella stanza del figlio al momento della sua morte; ma, rimasta definitivamente sola, scende in cortile a recuperarli. Gli oggetti appartenuti alla persone che abbiamo amato e che non sono più con noi possono restituircene il ricordo, colmando il vuoto della loro assenza.

Alcune parole per Alice
Michele Toniolo
Galaad Edizioni