La questione della crisi della critica letteraria e culturale sembra essersi arenata su una sorta di indisturbata concordia, dopo il profluvio di libri, saggi, interventi e opuscoli pubblicati a partire dai primi anni Novanta. È pacifico, per i più, che la critica abbia un suo posto ben delimitato nella società odierna; e allo stesso modo è pacifico che, proprio sulla scorta di tale posto infine ironicamente conquistato, la critica – e la sua mancata funzione civile – finisca per essere un elemento caratterizzante il nostro tardo capitalismo o, meglio, un elemento assorbito da, e funzionale a, quest’ultimo. D’altra parte, per restare nel nostro Paese, sono almeno vent’anni che il dibattito sui metodi e sulle tecniche della critica langue. Tanto che gli strumenti dello studio letterario sono ancora fermi ai retaggi dello strutturalismo e della linguistica come modello applicativo nell’analisi dei testi. Basti aprire una qualsiasi rivista di italianistica o leggere i titoli delle tesi di dottorato. Romano Luperini ha ben evidenziato, in molti dei suoi contributi, la scissione tutta italiana (perché, obiettivamente, esiste un “caso” peninsulare) tra una critica interessata al dettaglio, legata ai territori della microfilologia, prigioniera della presunta “letterarietà” del testo e di tutti i miti della falsa esternalità della letteratura; e una critica, dall’altra parte, praticata col mezzo dell’empatia e con il fine del narcisismo volontario, in cui il giudizio è affidato alle viscere più che all’intelletto, senza tacere la presunzione di volersi, il critico, sostituire allo scrittore. È forse quest’ultima pratica, che affolla le pagine culturali dei nostri quotidiani o persino le televisioni, ad atterrire più del resto. Perché, dall’assenza di un dibattito sui metodi, e per causa di un ritorno romanticheggiante alla “bellezza” del testo, quest’ultima critica ha assunto la possibilità di crearsi una propria legittimazione, un proprio codice e un proprio linguaggio. I critici-narcisi, in Italia, non sono una distorsione del sistema, bensì il crisma della sua vitalità; sono oggi, insomma, un gruppo capace di estendere la propria egemonia, attraverso l’occupazione dei mezzi di stampa e la diffusione di un manierismo che si fonda sul culto del gusto e sull’apologia dell’individuo capace, più di altri, di gustare l’arte, senza perdere il tempo di scendere nell’arena del dibattito e dell’argomentazione, senza capirla davvero.
(da L’impero in periferia, Marco Gatto, Galaad Edizioni 2015)