Per Capote non si trattava di sabotare il romanzo impegnandosi nell’elaborazione di una forma di racconto in grado di sottrarsi alle maglie di quel genere letterario, ma di raggiungere l’obiettivo opposto: conquistare territori nuovi per la tradizione romanzesca. Il motivo è presto chiarito: dal suo punto di vista, il romanzo in sé, o almeno quello che metta a frutto l’eredità dei capisaldi del naturalismo ottocentesco, non procede alla finzionalizzazione – ossia alla falsificazione in chiave estetizzante – del reale, giacché risulta invece lo strumento cognitivo meglio capace di misurarsi col “particolare” per cogliervi, in maniera quando scoperta e quando indiretta, il riflesso dell’“universale”, o ad ogni modo per ricavare da una scrupolosa rivisitazione della cronaca un accertamento, implicito o esplicito, di una più articolata, e magari rimossa, verità storica. Così, nel capolavoro dello scrittore statunitense, ci ricorda ancora Gigliola Nocera, «tra un indizio di sangue e un altro, tra i mille rivoli di una violenza “localistica”, si fa strada una più globale visione della storia» che, ripensando i «modelli archetipici del gotico americano», intende ribadire «l’irrazionale imprevedibilità degli eventi» e denunciare «l’ennesimo fallimento dell’American Dream».