Figli della Resistenza

di Antonio Tricomi

Chi sono e come lavorano, grossomodo nel primo trentennio dell’Italia Repubblicana, quelle particolari figure di romanzieri, poeti e saggisti che Romano Luperini (cfr. Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Liguori, Napoli 1999, pp. 173-175) e Marco Belpoliti (Settanta, Einaudi, Torino 2001, p. IX) hanno definito, rispettivamente, «scrittori-intellettuali» e «intellettuali-scrittori»? E cosa ha voluto dire, in quello stesso periodo, proporsi alla comunità dei lettori nelle vesti di critici letterari militanti?
Sono anzitutto i principali autori nati a ridosso o nel pieno degli anni Venti dello scorso secolo a corrispondere alle de-scrizioni offerteci da Luperini e Belpoliti: per fare appena qualche nome, si sta parlando di Fortini, Pasolini, Calvino, Bianciardi, Volponi, Sciascia, Zanzotto, Primo Levi. Al pari dei loro coetanei, questi e gli altri scrittori appartenenti alla medesima generazione si sono formati nelle scuole del regime; hanno dovuto compiere, in gioventù, la scelta epocale di essere fascisti o antifascisti; se non sono stati partigiani, hanno spesso vissuto, a guerra finita, il senso di colpa di non esserlo stati. E, dopo la Liberazione, molti fra loro si sono via via candidati ad essere le coscienze critiche della nuova so-cietà democratica, della quale, prendendo la parola in pubblico, hanno costantemente additato i ritardi e alla cui costruzione hanno cercato, con i propri testi, di collaborare. In ossequio alla lezione di molti capolavori e maestri della modernità, le loro opere nascono infatti pressoché sempre al confine tra narrativa, poesia, saggistica e con l’intento di ibridare tali generi letterari e discorsivi per meglio proporsi ai lettori quali esplicite ricognizioni o come allegoriche rivisitazioni del presente e della storia; e la loro più profonda identità di autori è perciò quella di critici della cultura a tutto campo, generalmente molto severi con i processi di modernizzazione in atto nell’Italia del dopoguerra o comunque capaci di cogliere il lato oscuro del boom economico e le contraddizioni insite nei vari progetti di emancipazione collettiva.
Ciascuno a proprio modo, Fortini e Volponi, Pasolini e Calvino sono insomma umanisti che, in virtù di questa loro formazione e dell’intrinseco valore civile ad essa riconosciuto, ambiscono a presentarsi come “intellettuali-legislatori”. A sospingerli è il desiderio di misurarsi con le “grandi narrazioni”, per accoglierle o rigettarle, e dunque altresì la volontà di interloquire con i gruppi politici e i Partiti di massa che simili orizzonti socioculturali veicolano, come pure – ovviamente – l’ansia di raggiungere quei lettori che agli esiti di un analogo confronto e ai risultati del medesimo dialogo affidano la definizione della propria identità civica. Agli occhi di tali scrittori, la letteratura è quindi uno strumento socialmente irrinunciabile: essa s’incarica di “testare” e aspira a rinvigorire la dialettica democratica, della quale intende anche denunciare le ipocrisie per poi impegnarsi nella costante elaborazione di utopie civili.
Né i primi decenni di storia repubblicana hanno in fondo visto lavorare in maniera differente i cosiddetti critici militanti. I migliori e i più consapevoli fra loro si sono infatti parimenti proposti come intellettuali-legislatori, poiché non hanno giudicato i libri esclusivamente in base al proprio gusto personale, ma hanno compiuto sforzi di pur discutibile oggettivazione culturale al cospetto di prodotti sempre liberamente sindacabili da ciascun fruitore quali quelli estetici. In altre parole, quanti esercitavano la critica militante miravano a vagliare le opere contemporanee e gli esiti della tradizione appoggiandosi a metodi interpretativi che risultavano il trait d’union tra quei testi e una varietà di saperi comunitari, identità condivise, istituzioni, gruppi sociali, formazioni politiche che agli esegeti professionisti chiedevano di svelare la coincidenza o la minima distanza o l’insanabile frattura tra le proprie idee di società e quella propugnata, magari indirettamente, da ogni singolo libro sondato. Così, la critica militante ha cercato d’essere l’anello di congiunzione tra le “grandi narrazioni”, finché la storia non le ha spazzate via, e la letteratura, nel senso che ha decifrato gli esiti e l’evoluzione della seconda con i criteri e in considerazione degli obiettivi delle prime. Scelta a tratti anche conformistica, o persino normalizzatrice, giacché incline a promuovere o bocciare un testo magari semplicemente in base alla sua compatibilità, oppure no, con peculiari forme di ortodossia ideologica. Ma anche scelta assai utile a quegli scrittori, e a quei lettori, che attraverso il confronto con un’esegesi comunque orientata potevano acquisire ulteriore coscienza delle proprie poetiche, gli uni, o della loro cifra culturale, gli altri.

(da “Nessuna militanza, nessun compiacimento” di Antonio Tricomi (Galaad Edizioni 2014))

www.galaadedizioni.com/nessuna-militanza-nessun-compiacimento/

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