Wayward Pines, mistero fra i pini

Da “Sguardo Serial” di Andrea Cinalli – Galaad Edizioni 2016sguardoserial-300x450

Una piccola comunità di provincia. Grumi di case malandate. Vecchi decrepiti che arrancano abbarbicati ai loro bastoni, sotto un sole che non scalda più. Auto che rombano solitarie su strade dissestate. Negozianti sull’orlo del fallimento che scrutano le vie nella speranza di indurre i viandanti, con la forza del pensiero, a fare acquisti nella loro bottega. Nulla di tutto ciò basterebbe ad accendere espressioni di stupore. Ma che accadrebbe se al nostro passaggio realizzassimo che tutti gli occhi sono puntati su di noi? È quanto accade all’agente speciale Ethan Burke (Matt Dillon). Mentre col partner perlustra la fitta boscaglia, alla ricerca di nuove piste nelle indagini che stanno conducendo per il Federal Bureau, l’auto va a cozzare contro un mastodontico tir materializzatosi nella foschia. Poco dopo, Burke schiude gli occhi nella luce asettica di una stanza d’ospedale. Osserva guardingo l’ambiente, finché una compita infermiera non sopraggiunge a somministrare sedativo e scampoli di informazioni: si trova a Wayward Pines. Burke reclama gli effetti personali, ma con una scusa vacillante – che tuttavia basta ad annientare le sue resistenze – viene quietato senza che possa allertare famigliari e colleghi. Le scusanti si ammonticchiano in una mole spropositata che emana l’olezzo della menzogna finché Burke, addestrato a fiutare l’inganno, arpiona gli indumenti e sguscia via. Zoppicante, si butta fra le vie della cittadina, incurante dei passanti che scartano di lato e lo guardano in cagnesco. Guadagna l’ingresso dell’ufficio dello sceriffo, ma si imbatte in un individuo lardoso che fra le labbra tumide si rigira chewing-gum e pettegolezzi. Chiede di essere accolto dal capo e quando questi acconsente si ritrova al cospetto di un fighetto strappato dal mondo del rap e trapiantato in una plumbea realtà provinciale, con la punta della lingua che tormenta forsennatamente un cono gelato semi-disciolto. Alla richiesta di riavere le sue cose, viene mitragliato di domande sull’incidente. Col tanfo dell’inganno che si è fatta puzza insostenibile, Burke monta a bordo di un’auto lasciata incustodita e avvia la sua fuga dalla cittadina stramba e grottesca. Ma quando la via imboccata conduce al punto di partenza, il poliziotto capisce di essere in trappola. Nessuna via di scampo. Nessuna possibilità di contatto col mondo esterno. Solo il fievole supporto di una vecchia fiamma, ingabbiata nella parte di devota mogliettina assegnatale da chissà chi. E una barista che subito gli si accosta come adiuvante chiarendogli che, una volta in città, ti appioppano una nuova identità e ti sorvegliano affinché ti comporti nel modo prescritto. Trama bella arzigogolata, quella di Wayward Pines, partorita da Blake Crouch. Il giovane romanziere, che ne ha sviluppato una trilogia letteraria di successo prima di meditare su una trasposizione televisiva, passeggiava per le vie di una località della Columbia cinta da vette innevate, le mani allacciate dietro la schiena e la quiete notturna rotta solo dal guaito di qualche solingo cagnetto, quando è fioccato il primo barlume di idea. “Cosa accadrebbe se restassi bloccato qui, se non potessi tornare a casa?”, una di quelle domande che molti relegherebbero in un anfratto della mente, liquidandola come il timore infondato di un vacanziero abituato alle ansie del tran-tran. Ma lui – da scrittore – ci ha ricamato su. L’ha assaporata finché a ogni aroma non è riuscito ad attribuire un volto e una storia. Ad affiancare Crouch nell’adattamento televisivo è Chad Hodge. Fu lui a scoprire lo script di American Beauty, poi baciato da un successo di critica e pubblico suggellato dalla vittoria agli Oscar. Alla guida della crew di Wayward Pines è arrivato dopo un filotto di incarichi analoghi in Veritas, Tru Calling, Runaway. In Fuga e The Playboy Club. A dispetto dei paragoni con Twin Peaks, Wayward Pines non è sorretta dalla stessa cura per personaggi e ambientazione. L’intenzione di edificare un impianto narrativo che imitasse le impalcature da prodotto cable è subito evidente, a partire dall’ordine di una midseason di dieci episodi, che non in neschi l’effetto sbadiglio delle maestose stagioni di ventidue ore da broadcast tv. Fa il verso alla tessitura cable anche la narrazione a incastro: le turbolente vicende del presente sono interrotte da sequenze che accennano a un passato remoto e nebuloso. Wayward Pines manifesta insomma la voglia di ergersi a cult, di dominare l’olimpo delle grandi serie e rilucere di costruzioni narrative che appena si intravvedono nel pilot. Ma per ora sembra alta la possibilità che la serie – dopo appena una stagione – venga offuscata dalla variegata offerta televisiva elargita in estate. E che passi via come la brezza che scuote i pini attorno alla città.