di Pietro Ruggieri
La perdita di un figlio è un evento devastante per una madre. Talmente devastante da non poter essere descritto. Il dolore raggiunge una tale assolutezza che si rischia di perdersi, di oltrepassare i confini della resilienza e di non tornare più a una vita normale. Sempre che possa esserci un ritorno alla normalità. Nessuno può spiegare cosa accada nel mondo interiore di una madre quando l’emanazione della sua stessa vita cessa di esistere. In Alcune parole per Alice la voce narrante, che rappresenta forse l’alter ego dell’autore, tenta di ricostruire il lutto di Alice. Antefatto ed epilogo sono lasciati nell’indeterminatezza: non sappiamo con precisione cosa abbia provocato la malattia del figlio, né come vivrà Alice dopo la sua morte. Anche la donna che affida al narratore i quaderni che Alice le ha lasciato, per consentirgli di ricostruire la sua storia, non è identificata. Non sappiamo cosa abbia scritto Alice nei suoi quaderni-diari: il racconto del trauma subito riaffiora solo a tratti, come da una sorta di rievocazione psicoanalitica, da un’immedesimazione dell’io narrante con Alice stessa. La ricostruzione delle fasi del dolore di Alice – dall’inizio della malattia, che inchioda il figlio a letto consegnandolo a una vita quasi vegetativa, al periodo di assistenza continua al suo capezzale, fino alla morte – avviene quasi per riemersione di brandelli di coscienza da un magma indistinto. I sentimenti di Alice sono spiegati attraverso alcune parole che lei stessa cita nei quaderni e che il narratore cerca di riconsegnarle per restituire un significato al dolore, per incanalarlo in una dimensione che trascenda i limiti dell’umana comprensione. Ogni parola viene scandagliata meticolosamente, lucidamente, senza indugiare in scontati sentimentalismi. E come in una sorta di archeologia della perdita, ogni parola, recuperata dal substrato di scrittura disgregata e incompleta dei quaderni, riporta alla luce il vissuto di Alice, i suoi ricordi, il modo in cui ha affrontato la malattia e la fine del figlio. C’è una parola, apparentemente contraddittoria rispetto alle sofferenze di Alice, che emerge con prepotenza tra quelle citate nel racconto: delitto. Alice sente di aver commesso un atroce delitto: si è arresa, anche se solo per pochi istanti, all’impossibilità della guarigione del figlio, mentre avrebbe dovuto continuare a lottare per la sua vita anche nel momento in cui Dio lo stava portando via da lei. Il senso di impotenza di fronte all’ineluttabilità della morte la induce a cedere, e quel cedimento diventa per lei una colpa. Ma nessuna colpa può essere attribuita ad Alice, perché la sua resa di fronte all’evidenza dei fatti, la stanchezza e il senso di inutilità di fronte a un evento immodificabile la rendono umana. Nella sua umanità, Alice getta via dalla finestra gli oggetti presenti nella stanza del figlio al momento della sua morte; ma, rimasta definitivamente sola, scende in cortile a recuperarli. Gli oggetti appartenuti alla persone che abbiamo amato e che non sono più con noi possono restituircene il ricordo, colmando il vuoto della loro assenza.
Alcune parole per Alice
Michele Toniolo
Galaad Edizioni