Dieci incontri con il reale
La psicoanalisi deve toccare il reale, in caso contrario è una farsa, oppure, detto altrimenti, una psicoterapia. Il sintomo di Lacan si misura – in dieci “incontri” che sono altrettante forzature e scomposizioni della stessa domanda – con questo interrogativo: la pratica analitica può toccare il reale? E se sì, quando e in che modo riesce a farlo? Il reale, comunque lo si voglia intendere – come uno dei registri della vita, come esperienza pura, come insopportabile, come esigenza pulsionale acefala, come problema insolubile, come impossibile, come cosa in sé, come realtà grezza, come nuda vita, come evento –, è senz’altro il “punto” sul quale Lacan ha insistito maggiormente nel corso del suo lavoro. Per questo egli ha concepito l’analisi come una prassi nella quale far accadere il reale, nella quale incontrarlo, per consentire all’analizzante di stabilire con esso, anziché patirlo, un diverso rapporto. Così intesa, la pratica analitica si allontana dai suoi consueti percorsi, rassicuranti ma asfittici, per dirigersi verso altri territori, verso un orizzonte impossibile; mentre l’analista è costretto a collocarsi in una nuova posizione, che sia all’“altezza” del reale – una posizione per certi versi insopportabile e insostenibile. Qui si incontra un secondo interrogativo cruciale, che attraversa il libro prendendo gradualmente corpo tra le pieghe del ragionamento: fino a che punto l’analista può forzare la propria posizione, fin dove può spingersi, affinché un’analisi arrivi a toccare il reale?
Matemi n.6
Rassegna stampa