Psichiatra, psicoanalista, filosofo, clinico, surrealista, dandy. Tutto questo – e molto altro ancora – è Jacques Lacan, originale e discussa figura del panorama intellettuale novecentesco. I suoi seminari, tenuti davanti a un pubblico estatico e adorante, hanno contribuito a fissare l’immagine straniante e oracolare di un sacerdote visionario alla guida di una setta, tanto più numerosa quanto più ermetico andava diventando il suo discorso. Cosa vogliono dire formule apparentemente incomprensibili come la celebre «la donna è non tutta» o l’ancor più enigmatica «non c’è Altro dell’Altro»? Semplici giochi di prestigio verbali dietro i quali non c’è nulla, formule per iniziati o allegorie di una verità cui si può solo alludere? L’idea che fa da sfondo a questo libro è che, attraverso il suo stile ellittico, evocativo e allusivo, Lacan abbia cercato di estendere le dinamiche della seduta analitica alla vita ordinaria, per far risuonare il clamore dell’inconscio, la sua muta insistenza: quel dire che si annuncia alle spalle del detto non immediatamente visibile nell’esistenza ordinata simbolicamente. Una clinica in atto, dunque, che nel volume viene indagata alla luce di due nozioni centrali del percorso clinico e teorico di Lacan: il senso e il godimento – concetti che, anziché escludersi a vicenda, interagendo concorrono alla definizione della soggettività. Questo perché – ed è la vera intuizione lacaniana – il soggetto pensando gode e godendo pensa: «c’è godimento dell’essere», sostiene Lacan. Si tratta, allora, di vedere in che modo ciò ridefinisca alcune nozioni classiche della filosofia, ma anche della psicoanalisi: essere, soggetto, sostanza, linguaggio, pensiero, conoscenza, senso, inconscio. Ne vien fuori – è la tesi sostenuta dal presente lavoro – una follisofia che è cifra della riflessione lacaniana: cioè un sapere folle, capace di confrontarsi, fino in fondo, con il paradosso tragico di un pensiero che è godimento.
Matemi n.8